“Ho ricevuto di più di quanto io abbia donato”
Sono sempre di più i giovani specializzandi che scelgono di passare un periodo di alcuni mesi tra le corsie del Lacor. Offrono il loro tempo, le competenze che ancora stanno acquisendo sui libri dell’Università e in cambio ricevono moltissimo.
Come testimonia il bellissimo scritto di Giuseppe Logrieco, specializzando in pediatria dell’Università Tor Vergata di Roma.
Grazie Giuseppe per aver condiviso i tuoi pensieri con chi sostiene il Lacor.
La tua testimonianza è una riprova dell’immenso lavoro che si svolge nei reparti e negli ambulatori di un grande ospedale del tutto gestito da personale africano.
Un ospedale di ugandesi per gli ugandesi.
“C’è una lunga strada che divide l’Uganda e, dicono, l’intero continente africano. E’ una strada asfaltata da pochi anni, la attraversano camion polverosi, innumerevoli Boda- Boda (le motociclette usate come taxi, ndr), vecchi fuoristrada e alcune ambulanze. Alle porte di Gulu, su questa stessa strada, è sorto più di 60 anni fa il St. Mary’s Lacor Hospital, un luogo che negli anni ha valicato la semplice definizione di ospedale, per diventare luogo di rifugio, di cure e di crescita di un intero, fragile, territorio.
Sono arrivato a Gulu nel pieno della stagione delle piogge, quando ormai era scesa la sera, percorrevamo questa vecchia strada illuminando per kilometri un’oscurità del tutto nuova per me, che si intrecciava all’ignoto del paesaggio e ai timori per i mesi a venire; i tergicristalli spazzavano ritmicamente la ripetizione incessante delle stesse domande: dove sono? come andrà? potrò essere davvero d’aiuto?
Quando però si osserva in lontananza l’insegna su questa immensa cisterna e si superano finalmente i cancelli dell’Ospedale, si ha subito la sensazione di essere al sicuro. La prima cosa che mi ha travolto di questo luogo è il suo passato, la sua storia leggendaria e spesso dolorosa, la sua caparbia e incondizionata accoglienza “verso tutti, al minor prezzo possibile”.
E’ impossibile non farsi affascinare dall’ombra dei grandi manghi sotto la quale riposano tutti i protagonisti di questa missione, dalle loro immagini all’ingresso e dalla spiritualità che infondono silenziosamente.
E’ impossibile non restare incantati dal flusso variopinto e rumoroso di madri e bambini che attraversano le vie della struttura, muovendosi come in un luogo familiare, di donne gravide che si avvicinano lente e pazienti alla “maternity”, di comunità intere che si muovono e sostano tra le mura dell’ospedale per dare sostegno ai loro malati, come fossero un’unica inseparabile entità.
Un flusso che è tuttora l’immagine che più facilmente associo nella mia memoria alla vita, alla sua prepotente e perpetua spinta a manifestarsi e diventare più forte del dolore e della morte.
La magia di queste immagini è la cosa che salvava me e immagino tutto il personale del Lacor nei momenti più difficili, quando la frustrazione diventa ingombrante e ti senti così piccolo di fronte alle scelte del destino.
All’ingresso della “Children Ward”, la pediatria, dove ho svolto la mia esperienza per 4 mesi, c’è una scritta che recita: “What kind of footsteps are you leaving in kids lives?” “quali impronte stai lasciando nella vita dei bambini, ndr”. Ciò che ho vissuto all’interno di quel reparto è una continua risposta a quell’interrogativo, un continuo tentativo di migliorarsi, concretizzare i propri sforzi per aiutare i neonati e i bambini che affollano il reparto.
In ospedale si ricoverano bambini e famiglie dai luoghi più disparati, non solo acholi, ma anche provenienti dal Sud Sudan, dal West Nile, trasferiti da diversi ospedali di provincia quando hanno necessità di cure più delicate o di approfondimenti diagnostici.
In certi periodi la quantità di pazienti è impressionante, ci sono bambini ovunque, spesso 2 o 3 per letto, spesso poggiati appena fuori dalle pareti del reparto, quelli più stabili scorrazzano nei corridoi, a quelli più fragili si cerca di destinare più spazio e più attenzioni; nella nursery, dove vengono seguiti i neonati prematuri, ci sono giorni in cui si sfruttano anche le scrivanie per far spazio ai nascituri: si accolgono e si curano tutti, spesso affidandosi anche a spazi e forze che non si conoscevano, come una grande barca, sempre più straripante e che sembra affondare, ma che continua inspiegabilmente il suo viaggio.
Le prime settimane sono quelle più difficili, si deve imparare a lavorare e muoversi in un setting tutto diverso sotto innumerevoli punti di vista, sembra di attraversare un vuoto gravitazionale dove tutte le priorità e le certezze precedenti sono sovvertite.
Si impara ad affidarsi spesso al potere esclusivo dei propri occhi e delle proprie mani per fare diagnosi, a trovare un equilibrio tra la modalità frenetica di gestione occidentale e quella lenta ma riflessiva africana. Spesso si deve iniziare a trattare empiricamente, avendo pazienza nell’arrivo delle risposte dal laboratorio o dalla radiologia, che non sono, per forza di cose, immediate come le nostre. Il confronto con i due pediatri del reparto, il Dott. Venice e la Dott.ssa Pamela è stato essenziale, soprattutto i primi tempi per affrontare queste sfide, per aiutarmi con la loro esperienza clinica a colmare il mio disorientamento iniziale e ad incentivare la mia autonomia in poco tempo.
Si impara poi ad acquisire un linguaggio diverso per ottenere un’anamnesi più verosimile, più semplice e diretto in alcuni casi, più velato e intuitivo in altri. Gli acholi sono un popolo meraviglioso, all’inizio diffidenti e taciturni, comunicano spesso con pochi movimenti le loro necessità, hanno un linguaggio che è prima di tutto corporeo: una piccola inclinazione del collo, l’inarcare deciso delle sopracciglia sono piccoli segnali che nel tempo si impara a decifrare. In poco tempo iniziano poi a fidarsi di te, basta un “Afoyo” o un “Timachicha” ad accorciare le distanze, mentre ridono fragorosamente per la tua pronuncia iniziano già ad osservarti con nuovi occhi e ad aprirsi, comunicando le loro paure o la loro gioia della guarigione.
La visione della vita di questa gente è una delle cose che mi porterò più stretto, una fiducia incondizionata nel futuro, nella speranza di cambiamento, la leggerezza con la quale ripensano al passato e al dolore, come se tutto il presente fosse un dono immenso e cristallino che può scomparire da un momento all’altro, ma per il quale non ci si stanca mai di lottare.
Ad esempio, c’era un neonato che versava in condizioni difficili ed era anemico, quando tutto si è risolto la madre mi ha detto ironicamente “a vederlo così pallido ho pensato fosse diventato un musungu”; quanta forza ci vuole ad osservare la paura con questi occhi?
Ho curato un altro neonato per una sepsi e al momento della dimissione la madre mi ha detto che lo avrebbe chiamato Joseph, per ringraziarmi. Non ho fatto niente di particolare per quel neonato che andasse al di là del mio lavoro, ma le mie attenzioni e le mie cure facevano parte di quel dono di cui la visione del presente è permeata e che doveva avere un nome e un ricordo.
Sono ampiamente sicuro di aver ricevuto da loro molto più di quanto abbia potuto donare, di essere in debito con loro, per tutte le loro espressioni, le gioie che mi hanno donato, la forza nell’affrontare la sofferenza e tutti gli altri insegnamenti che mi hanno lasciato.
Sento di essere stato curato da loro come uno dei tanti bambini malnutriti che sono seguiti in reparto: arrivavo in Africa in un momento di smarrimento nel quale sentivo di star perdendo la dimensione emotiva del mio lavoro, sono stato nutrito giorno per giorno di ricordi che mi hanno cambiato per sempre”.
12/04/2023