Una vocazione salda nel tempo
Un saluto e una riflessione ci arrivano oggi da Bruno Corrado, fino a quindici anni fa direttore del Lacor di cui aveva preso le redini succedendo a Piero Corti. Da qualche mese Bruno è in Uganda, da dove ci parla del presente e del passato dell’ospedale, con uno sguardo al futuro.
“Siamo a inizio anno”, racconta, “nel pieno della stagione secca, ed è un momento cruciale nella vita del Lacor. Appena superata la metà dell’anno operativo, che tradizionalmente in Uganda finisce al 30 giugno, si tirano le somme e si accelera su ciò che rimane da fare. È sempre stato così nei tanti anni che sono stato qui, ma in particolare mi viene in mente l’inizio del 2007, un momento di profondo cambiamento che ha portato a effetti ben visibili anche oggi.
Quell’anno sono successe due cose fondamentali per il futuro dell’ospedale: abbiamo cominciato a lavorare al primo piano strategico quinquennale e si è avviato il passaggio di consegne all’attuale direzione ugandese.
Pensando al primo piano strategico, (oggi l’ospedale sta lavorando al quarto, per il periodo 2022-2027), l’esperienza di questi anni ci dice che non si è trattato di un esercizio burocratico, ma che questi piani hanno aiutato l’ospedale a non disperdersi sotto la spinta di esigenze sempre nuove. Il Lacor è rimasto fedele alla sua vocazione: dare risposte ai problemi sanitari più rilevanti della sua zona, in particolare quelli di donne e bambini raggiungendo gli strati più svantaggiati della popolazione. Le scelte strategiche in favore dei più poveri sono rimaste salde anche durante quest’anno di pandemia.
Ed è sempre Quando, nel 2003, in seguito alla morte del Dr. Corti, mi era stato chiesto di assumere la direzione dell’ospedale, avevo accettato a condizione che, entro cinque anni, avrei passato le redini ad una dirigenza ugandese. Proprio quindici anni fa si è avviato il coinvolgimento dei tre candidati alla successione nell’affrontare insieme i problemi che si presentavano giorno per giorno.
L’attuale epidemia mi porta poi a pensare a quelle di cui sono stato testimone diretto al Lacor, a cominciare dal morbillo, all’HIV, all’Ebola. Negli anni ‘90 il reparto morbillo contava anche più di 250 pazienti al giorno; adesso questa malattia non esiste più grazie alla vaccinazione di massa, a cui il Lacor continua a contribuire in modo significativo. Ormai di AIDS non si parla quasi più, ma qui, durante la guerra, oltre il 13% delle donne incinte era positivo all’HIV; l’ospedale continua oggi a seguire migliaia di questi pazienti che, grazie alle terapie disponibili, conducono una vita normale.
Mi viene anche in mente l’epidemia che non c’è mai stata, quella di colera; l’abbiamo molto temuta quando ogni sera migliaia di persone venivano a rifugiarsi in ospedale per sfuggire alle incursioni dei ribelli che rapivano i giovani per farne soldati-bambino. La costruzione di tante fosse settiche, la perforazione di qualche pozzo e tanta educazione sanitaria, insieme al controllo accurato dell’acqua del sistema idrico ospedaliero, hanno evitato che si accendesse un focolaio.
E ancora: vedere che una parte rilevante dell’ospedale è zona di isolamento per i pazienti Covid riporta alla mente quando abbiamo avuto ben 60 pazienti di Ebola. Il reparto Covid è ben organizzato, qui vengono portati i pazienti più gravi della zona perché l’ospedale ha un suo impianto di produzione e distribuzione dell’ossigeno. Un successo dell’attuale dirigenza ugandese. Quando ero direttore avevo infatti trovato un donatore disposto a finanziarlo, ma avevo dovuto rinunciare per difficoltà tecniche. I direttori ugandesi venuti dopo di me sono riusciti a superare gli ostacoli. Oggi l’impianto esiste e funziona, unico nel Nord Uganda e fornisce bombole anche al vicino ospedale governativo”.
Come volevano Piero e Lucille e lo stesso Bruno, oggi tutto il personale sanitario è ugandese. La vocazione dell’ospedale è rimasta: curare i più fragili. E per continuare a farlo, l’aiuto di ogni donatore è insostituibile.